Am 7,12-15; Sal 84; Ef 1,3-14; Mc 6,7-1

XV Domenica del Tempo Ordinario anno B

14-07-2024

 

 

“Quando un profeta è rifiutato a casa sua, dai suoi, dalla sua gente (cf. Mc 6,4), può solo andarsene e cercare altri uditori. Hanno fatto così i profeti dell’Antico Testamento, andando addirittura a soggiornare tra i gojim, le genti non ebree, e rivolgendo loro la parola e l’azione portatrice di bene (si pensi solo a Elia e ad Eliseo; cf., rispettivamente, 1Re 17 e 2Re 5). Lo stesso Gesù non può fare altro, perché comunque la sua missione di “essere voce” della parola di Dio deve essere adempiuta puntualmente, secondo la vocazione ricevuta” (cfr. Enzo Bianchi).

Gesù, rifiutato e contestato nel suo paese, a Nazareth, dai suoi, predica la buona notizia in modo instancabile percorrendo i villaggi d’intorno e decide di allargare questo suo “servizio della Parola” anche ai Dodici, alla sua Comunità.

Vuole coinvolgerli nella sua missione per renderli capaci di proseguire da soli, ma al tempo stesso vuole prendersi anche un po’ di tempo per sè, per restare in disparte, per verificarsi e rileggere tutto ciò che fa e dice.

Per queste ragioni Gesù invia i Dodici in missione nei villaggi della Galilea, li manda “a due a due”, perché la missione non può essere individuale, ma dev’essere condivisa, corresponsabile.

Se il codice della missione è la condivisione, lo stile della stessa è molto esigente.

Infatti la trasmissione del messaggio, della Parola, dev’essere autorevole, credibile, coerente, affidabile. Infatti Gesù entra nei dettagli sul “come” i suoi devono mostrarsi.

Povertà, precarietà, mitezza e sobrietà devono essere lo stile dell’inviato, perché la missione non è conquistare anime ma essere segno eloquente del regno di Dio che viene, entrando in una relazione con quelli che sono i primi destinatari del Vangelo: poveri, bisognosi, scartati, ultimi, peccatori… Per Gesù la testimonianza della vita è più decisiva della testimonianza della parola, anche se questo non l’abbiamo ancora capito. In questi ultimi trent’anni, poi, abbiamo parlato e parlato di evangelizzazione, di nuova evangelizzazione, di missione – e non c’è convegno ecclesiale che non tratti di queste tematiche! –, mentre abbiamo dedicato poca attenzione al “come” si vive ciò che si predica. Sempre impegnati a cercare come si predica, fermandoci allo stile, al linguaggio, a elementi di comunicazione (quanti libri, articoli e riviste “pastorali” moltiplicati inutilmente!), sempre impegnati a cercare nuovi contenuti della parola, abbiamo trascurato la testimonianza della vita: e i risultati sono leggibili, sotto il segno della sterilità! (cfr. Enzo Bianchi).

Lo stile che Gesù esige deve esprimere innanzitutto decentramento: la testimonianza è riconducibile alla gratuità del Vangelo e alla gloria di Cristo. Lo stile che Gesù propone non deve fidarsi dei mezzi da possedere, li riduce al minimo, perché non deve assolutamente essere oscurata la forza del Vangelo che è potenza di Dio.

Lo stile deve esprimere la volontà di spogliazione, alleggerito di pesi e bagagli inutili, deve essere povero di quella povertà che dice condivisione di ciò che si ha e di ciò che viene donato.

Il cristiano deve saper vedere tramonti attorno a sé, senza che per questo il suo sole scompaia; deve essere povero con i fratelli (spiritualmente) poveri e tuttavia non deve rinnegare la sua ricchezza.” (H.U. Von Balthasar).

Uno stile che non confida nella propria parola seducente, attraente, ma uno stile che deve prevedere anche il fallimento perché ciò che conta è la forza e la potenza della Parola che viene annunciata e testimoniata, della Parola che è Vangelo, bella notizia. Anche Gesù ha sperimentato rifiuto ed abbandono, insuccesso umano, e se è capitata a Lui questa sorte, non può che capitare al “missionario predicatore”. Non bisogna mai temere l’insuccesso e il fallimento, perché il missionario, nel momento in cui sperimenta il rifiuto, la non accettazione, si rivolge ad altri, va altrove, scuotendo la polvere dai piedi.

Ciò che conta, lo diciamo a noi oggi, ciò che è determinante, è vivere con lo stile di Gesù, come Lui ha vissuto.

Gesù, quando invia i suoi, non chiede loro né militanza né propaganda, ma uomini e donne capaci di intercettare la vita delle persone con la bellezza del Vangelo.

Attesta uno scritto cristiano delle origini, la Didaché: “L’inviato del Signore non è tanto colui che dice parole ispirate ma colui che ha i modi del Signore” (11,8).

Viviamo questa Domenica ponendoci una domanda di senso: viviamo il Vangelo, oppure lo proclamiamo a parole, senza renderci conto della nostra schizofrenia tra Parola e vita? La nostra vita cristiana, nell’oggi del nostro tempo complesso, è una vita conforme a quella di Gesù?

Che sia una buona Domenica soprattutto di conversione ad uno stile di vita cristiano autentico, coerente e credibile.

 

 

   Francesco Savino

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