XXIX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO [SCARICA]
22 Ottobre 2017
“I farisei se ne andarono e tennero consiglio per vedere come cogliere in fallo Gesù nei suoi discorsi … Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità … Di’ a noi il tuo parere: è lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?”.
Per comprendere questa domanda a trabocchetto posta a Gesù, è necessario contestualizzarla storicamente. Gli abitanti della Palestina erano sottomessi al potere di Roma al cui erario erano obbligati a versare il “Census”, una tassa di un denaro di argento pro-capite, l’equivalente di una giornata lavorativa. Al tributo erano tenuti uomini, donne e schiavi dai 14 ai 65 anni che dovevano pagare anche una tassa annuale al Tempio, il “fiscus Judaicus” (Mt 17, 24).
Il denaro per il Census recava l’immagine dell’imperatore con la scritta “Tiberio Cesare Augusto, figlio del divino Augusto, sommo sacerdote”.
La questione del pagare o no il tributo aveva più risposte: sì per gli erodiani, i sostenitori di Erode Antipa tetrarca di Galilea, sì per i farisei in ragione del fatto che ogni autorità viene da Dio, no per gli zeloti perché quella moneta era da considerarsi idolatrica nel suo divinizzare l’imperatore (cfr. Giancarlo Bruni).
A voler conoscere il parere di Gesù sono proprio gli erodiani e i farisei, che cercano di catturare con ipocrisia la sua benevolenza. Gesù, dopo averli smascherati, evita la politicizzazione dell’immagine di Dio e si oppone alla sacralizzazione del potere politico. Da un lato si distanzia dagli zeloti, che consideravano Dio come unico “cesare” legittimo, e dall’altro critica la sacralizzazione del potere politico demitizzando Cesare. Siamo di fronte a tentazioni idolatriche: la tentazione di dare a Dio quello che spetta all’entità statale cadendo in posizioni religiose totalitarie e non rispettose della “laicità” del potere politico; l’altra tentazione è di dare a Cesare quello che spetta a Dio, assolutizzando il potere politico.
A tal proposito è significativo il commento di Soren Kierkegaard: “O infinita indifferenza! Che Cesare si chiami Erode, che sia romano o giapponese, è cosa che a Gesù non importa minimamente. Ma, d’altra parte, quale abisso di infinita differenza egli stabilì tra Dio e Cesare”. L’indifferenza di Gesù nei confronti di Cesare è stabilita sull’infinita differenza che egli pone tra Dio e Cesare.
Il “dare a Dio quello che è di Dio” significa che, “se l’imperatore esige per sé ciò che spetterebbe a Dio come l’adorazione, il cristiano, memore della parola che dice: «bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini» (At 5, 29), non è tenuto a dargliela, anzi può perfino affrontare il martirio, mostrando che solo Dio è il Signore della vita” (cfr. Luciano Manicardi).
Il primato appartiene alla signoria di Dio.
Il credente abita il mondo ma non è del mondo (cfr. Gv 17, 11.16), abita la città secolare, ma attende il compimento del regno di Dio, vive la pólis, ma ha il politeuma, la cittadinanza nei cieli (cfr. Fil 3, 20). Il cristiano, alla sequela di Gesù, vive autenticamente la fedeltà alla terra e alla pólis grazie alla sua riserva escatologica.
“Rendere a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio” va compreso anche nel senso di “curare” il mondo, uscito dalle mani di Dio e affidato a quelle dell’uomo, seguendo i requisiti di giustizia e diritto che sono propri della prassi messianica.
L’augurio di oggi è di una bella Domenica nella quale riscopriamo la fedeltà autentica a Dio, Signore della storia, curando la “casa comune”.
✠ Francesco Savino