Lettera di S.E. Mons. Francesco Savino al popolo di Dio

 

Al Popolo di Dio della

Diocesi di Cassano all’Jonio

 

TU sei atteso:

parole a chi soffre nel silenzio.

 

Vi è un mistero, dolente e abissale, che attraversa come una lama invisibile la carne viva dell’umano. Esso si consuma nel silenzio sospeso di una stanza chiusa, dove l’eco del dolore non trova più voce; si annida nello sguardo spento di una madre che ha smarrito il figlio nel buio dell’incomprensibile; vibra nel cuore attonito di chi, davanti all’assenza, osa chiedere ancora: perché?

È il mistero tremendo e sacro del suicidio: un grido che non ha suono, un’estrema supplica d’amore che si spegne nell’indifferenza del mondo, il gesto ultimo di chi non ha più trovato dimora né nelle parole, né negli abbracci, né nei giorni. È una ferita aperta, che lacera e non si chiude, che brucia anche quando il tempo tenta di coprirla col velo dell’oblio. È l’assenza che grida senza voce, che impone una presenza, la sedia vuota che non smette di parlare, il nome taciuto che pulsa nel cuore, come una preghiera senza risposta.

Chi si toglie la vita non sceglie la morte, ma cerca, disperatamente, la fine del dolore. E noi, poveri viandanti nel tempo, restiamo, davanti a questo abisso, con le mani vuote, incapaci di giudicare, chiamati solo a custodire, ad amare più forte, a piangere con chi piange. Perché in ogni suicidio c’è un’anima che ha implorato salvezza e non l’ha trovata, un figlio che è sceso nell’ombra, un fratello caduto che attende ancora un gesto di misericordia. Lo sapeva bene Gesù che ha provato compassione di fronte ogni abisso umano: lo ha sfiorato, lo ha abbracciato, in un abbraccio che solo l’Amore che si fa carne sa donare.

“La mia anima è triste fino alla morte” (Mt 26,38).

Una confessione tremenda, spoglia di ogni retorica che apre uno squarcio sull’abisso interiore che molti, oggi come ieri, conoscono intimamente. Quella ferita che molti non raccontano a nessuno, l’anticamera del nulla, la vertigine dell’anima che la sospende tra il desiderio di vivere e quello di smettere di soffrire. Ma, Gesù, fa anche di più. Abbraccia il suicidio molte volte nella sua vita; lo fa con l’amico spezzato, Giuda, il compagno perduto. Un bacio sul volto, eterna icona del tradimento e del dolore, che tiene tra le maglie di una rete fittissima, tutta la fragilità di chi non trova il coraggio di perdonarsi. Giuda non è solo colui che tradisce ma è l’uomo “dell’im-perdonarsi”, colui che pur avendo camminato con l’Amore  si convince che il suo errore sia troppo grande per essere redento e non crede più che l’amore sia in grado di ricucire gli strappi; non trova più sguardi che lo riportino alla vita e così si consegna al silenzio tragico. Giuda non è l’uomo che fugge ma il volto che non riesce a guardarsi allo specchio. Eppure, proprio lì, nella solitudine di un ramo e di una corda, Cristo lo segue, lo cerca tra le pieghe delle tenebre, lo piange come un amico amato e perduto.

Nel Getsemani Gesù porta con sé anche il dolore di Giuda. Sul calvario, mentre il cielo si oscura ed il mondo sembra vacillare, anche per Giuda scorre quella goccia di sangue e misericordia.

Giuda è l’icona di tutti coloro che non si sentono più degni, che credono di essere irrimediabilmente fuori dalla grazia ed invece, anche e soprattutto per loro, c’è un Dio che scende fino all’inferno del rimorso, non si stanca di cercare, di sperare, di salvare. Mi piace pensare che, un giorno, nell’intimità nascosta tra la giustizia e la misericordia, lì dove solo Dio vede ed arriva, Giuda si sia lasciato abbracciare, si sia perdonato e con quel perdono, con quell’abbraccio sia tornato finalmente a casa.

Non giudichiamo.

Non alziamo muri di condanna.

Dinanzi al mistero lacerante del suicidio, ogni parola rischia di profanare il dolore ed ogni spiegazione di ridurre l’abisso. Il silenzio che resta, quello è sacro, avvolge la sofferenza di chi è andato via e quella di chi resta con troppe domande.

“Dove c’è pericolo cresce anche ciò che salva” sono le parole di una poeta tedesco, Holderlin, che in queste ore mi risuonano in testa come una ninnananna. Nel cuore della notte, anche della più buia c’è un barlume che noi non sappiamo vedere, un grido che non sappiamo ascoltare, una preghiera fatta senza parole, pronunciata per sfinimento.

La vita interiore dell’uomo è terra sacra, misteriosa ed inaccessibile persino a chi ne è protagonista. E chi siamo noi per pronunciare sentenze sull’abisso che non conosciamo? Chi siamo noi per giudicare se neanche il nostro Dio punta il dito?

Mi rivolgo dunque a te, amico e amica che in queste ore convivi con una anima triste fino alla morte; a te che in queste ore ti senti stanco e smarrito, svuotato, perché tutto ciò che hai donato non è bastato. A te che hai imparato l’arte del sorriso plastico e sorridendo nascondi la fatica. E sorridendo non chiedi aiuto. E sorridendo spegni quella voce che vorrebbe solo gridare.

Perdonati.

Sì, perdonati. Per quella durezza che rivolgi a te stesso, per l’amore che pure meriti e non ti dai, per ogni volta che hai pensato di essere fallito.

Perdonati e RESTA.

Resta in questo giorno che sa di notte, resta nonostante tutto. Il tuo dolore non è uno scaldalo per Dio ma un appello e la tua esistenza così ferita, è così tanto piena di senso. Dio non ha paura, non si scandalizza della tua oscurità, non si ritrae. Fermati e guardalo, Lui scende proprio lì, dove nessuno vuole entrare, si siede accanto a te, anche se non parli, anche se non lo senti. Piange le tue lacrime e ama in te, ama con te, ama te, anche se tu non riesci più ad amarti. Il primo passo verso la luce non è cercarla con forza ma permettersi di esistere anche nel buio.

Non fare nulla solo, resta. Solo respira. A volte, l’inizio della resurrezione è un respiro che non si spezza. Un giorno ti renderai conto di quante vite hai toccato semplicemente restando, facendo dell’amore sempre e solo l’ultima parola.

“Non ho nessuno che mi aiuti” diceva il paralitico della piscina di Betzatà (Gv 5,7): non era solo la voce di un uomo malato ma l’eco di una umanità intera, prostrata nel cuore, la confessione di un abbandono radicale.  So bene che, oggi più che mai, viviamo un tempo in cui il mondo esige prestazioni e promette gloria solo a chi corre; chi resta indietro avverte su di sé il peso dell’invisibilità. Una società che idolatra la produttività e misura l’uomo dalla sua resa; in cui la fragilità è percepita come una colpa, la stanchezza come una colpa, la tristezza come una colpa.

Quell’uomo, il paralitico, aveva atteso trentotto anni e nessuno mai si era fermato.

Gesù si ferma.

E gli chiede “Vuoi guarire?”, una domanda all’apparenza retorica che è la chiave della tenerezza. Gesù vuole che l’uomo riscopra, anche nella paralisi della speranza, un desiderio di vita. In onore di questo desiderio gli dice di alzarsi e di camminare, non lo aiuta, non lo alza, gli permette di farlo da solo, gli restituisce la forza interiore come a dire: tu puoi farcela, tu non sei finito. Ecco la grandezza del Vangelo, Dio non è un mago che elimina il dolore ma è il prossimo di chi soffre; non cancella il grido, lo ascolta, non ignora le lacrime, le raccoglie. Dove il mondo passa oltre lui RESTA, dove gli uomini giudicano, lui risana.

E allora sì, a voi che vi siete sentiti di troppo, anime spezzate, cuori silenziosi, vi chiediamo perdono.

Perdonateci se siamo stati sordi al vostro grido, ciechi al vostro spegnervi, distratti mentre urlavate. E a te, che leggi con il cuore appesantito, forse in lotta col pensiero di arrenderti, voglio dire con tutta la forza dell’anima: tu sei atteso.

Tu sei voluto.

Tu sei amato da sempre, da prima del primo tuo respiro.

Il tuo dolore non è scandalo, è terra sacra. Merita ascolto, cura, tempo. Chi si toglie la vita non è colpevole: è stanco. È trafitto da un dolore che ha fatto il nido dove nessuno è riuscito a entrare. Non condanniamo, non sventoliamo verdetti.

Piangiamo.

Amiamo.

Inginocchiamoci dinanzi al mistero della sofferenza altrui, e con mani tremanti affidiamo quelle vite al Padre che raccoglie ogni lacrima nel cavo della mano (cf. Sal 56,9). Noi, Chiesa di Cristo, non vogliamo essere tribunale, ma rifugio. Non altare di perfezione, ma ospedale da campo. Una casa dai muri scrostati ma dalle porte spalancate, dove si può tornare anche feriti, anche senza forze, anche senza parole. Perché ogni frammento conta, ogni storia ha un senso, ogni ferita può fiorire.

E allora, lasciami dirti ancora una volta: non è finita. Finché respiri, finché il tuo cuore batte, c’è speranza. Anche se tutto sembra crollare, anche se l’abisso ti chiama per nome, tu resisti.

Resta.

Perché anche stanotte, proprio stanotte, Dio può accendere una stella tutta per te. E se la notte è troppo buia per vedere, ti prestiamo i nostri occhi. Se le gambe tremano, ti prestiamo il nostro abbraccio. E se ti senti nulla, lasciaci dirti: tu sei un miracolo.

E quando un giorno, non sappiamo dove né quando, ci ritroveremo tutti — noi, voi, chi è rimasto e chi è andato — ci sarà un campo di luce ad accoglierci. Non ci saranno più lacrime né addii. E allora capiremo. Capiremo che nessun dolore è andato perduto, che ogni grido è stato udito, che ogni vita ha lasciato una traccia d’eternità. Perché Dio, il Dio crocifisso, non si è mai allontanato da chi soffre.

E l’amore, l’amore vero, ha l’ultima parola. Sempre.

 

     Cassano allo Ionio, 16 Luglio 2025

✠   Francesco Savino

Vescovo di Cassano all’Jonio

16-07-2025
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