“Oggi la luce risplende su di noi”
La profezia cristiana per un mondo che ha bisogno di speranza
Carissime e carissimi,
«Oggi la luce risplende su di noi», canta la liturgia del Natale. Un inno di giubilo che porta fuori dalla notte e annuncia un’aurora inaspettata, sorprendente: pensavamo di rimanere nella notte di un’umanità impaurita e invece è ancora tempo di osare la speranza!
Oggi è tempo di speranza. Non è un augurio retorico, ma un annuncio profetico: il Signore è Dio-con-noi, abita il nostro mondo e, se noi ci lasciamo guidare dalla sua luce, allora la Storia non resta nel buio del non senso, ma ha una meta da raggiungere e una speranza forte da realizzare. Di questa speranza, come Chiesa, noi tutti siamo chiamati ad essere testimoni e profeti.
La nostra decima assemblea diocesana, nello scorso mese di settembre, ci ha aiutati a prendere coscienza di questa vocazione, da vivere nel nostro tempo e in questa nostra terra. In occasione dell’Avvento e nell’attesa del Natale, coi pensieri che vi porgo vorrei semplicemente estendere alcune risonanze, in me, della Parola che abbiamo ascoltato e dal reciproco scambio che essa ha attivato.
Non è facile dare speranza a questo mondo, lo sappiamo. Non solo per le ansie vecchie e nuove che lo soffocano, ma prima di tutto perché la speranza rischia di sfilarsi persino dal cuore dei profeti che dovrebbero indicare le mete luminose da desiderare. Ebbene, noi battezzati abbiamo questo compito profetico. Lo accettiamo anche oggi? Siamo capaci di vivere e annunciare la speranza? Sappiamo desiderare mete alte secondo il cuore di Dio? In questo tempo di grazia che conduce al Natale, mentre il Giubileo incipiente ci rassicura che “la speranza non delude”, riprendiamoci con fiducia la missione profetica che ci appartiene per vocazione.
L’intreccio di oppressione e speranza
L’Avvento è il Tempo favorevole per richiamare le nostre vite alla speranza attiva. Non a caso, la liturgia dell’anno corrente si apre con questa invocazione fiduciosa: «Padre Santo, che mantieni nei secoli le tue promesse, rialza il capo dell’umanità oppressa da tanti mali e apri i nostri cuori alla speranza, perché sappiamo attendere senza turbamento il ritorno glorioso del Cristo giudice e salvatore» (Colletta della 1a Domenica di Avvento anno C).
Questo breve testo è strutturato – mi sembra – in due simmetrie, incluse l’una nell’altra e vicendevolmente implicate: la simmetria della promessa e quella della speranza.
La prima simmetria è quella che guarda alle promesse già compiute da Dio nei secoli come fondamento e garanzia della promessa universale da realizzarsi: il ritorno glorioso del Cristo giudice e salvatore. Vi si trova, in estrema sintesi, tutta la comprensione cristiana della storia. La storia non è un vagare senza senso, ma è attraversata e sostenuta da un progetto di amore, nell’intreccio fecondo e misterioso tra il disegno amorevole di Dio e le libertà umane. La meta è Gesù – il Gesù dei vangeli, da noi crocifisso e dal Padre risuscitato, già presente nel mondo – di cui attendiamo, istante dopo istante, la venuta gloriosa. Questa meta non è anelata sulla base di un sogno, ma sul fondamento dei fatti avvenuti, delle azioni meravigliose di Dio realizzate nella storia e compiute dall’evento della Pasqua del Figlio suo. Non viviamo nel senso attivo della sua presenza: egli è qui, vicino, e ancora verrà. Il ‘luogo’ della nostra speranza è il ‘tempo’, la nostra drammatica storia in cui le promesse di Dio ispirano, guidano e realizzano le opere della salvezza.
La seconda simmetria è quella della speranza. Essa si sviluppa nel confronto tra i mali che opprimono l’umanità e i cuori che si aprono alla fiducia. I due poli sono in antitesi, ma non in una separazione dualistica, bensì in un reciproco intreccio. Non possiamo distogliere il nostro sguardo né dall’esperienza dei mali, né dalla concreta speranza che agisce nella storia e che tende al suo compimento. L’esperienza dei mali che attanagliano l’umanità ci costringe a tenere i nostri piedi sempre ben saldi nel cammino quotidiano, senza irenismi – «Andrà tutto bene» – e senza pensare di poter evadere in pericolose fughe spiritualistiche. Allo stesso tempo, tuttavia, l’azione salvifica dell’amore divino ci inserisce come operatori di speranza e di luce in questo stesso mondo oppresso, senza che la realtà dei mali ci costringa a un deprimente pessimismo. Protagonisti attivi, invece, del nostro tempo.
L’intreccio dei mali e della speranza ci ricorda che noi non lavoriamo per il sogno utopico, millenaristico, di un progresso che liberi per mano nostra questo mondo terreno dalle contraddizioni del male e del dolore. Uniti a Cristo Redentore e con la forza del suo Spirito, noi siamo chiamati a farci carico dell’esperienza del male e del dolore, cioè ad assumerla, trasformandola dal suo interno in un ‘luogo’ della carità paziente e della misericordia generativa.
Ecco allora la “speranza che non delude”: essa non si compirà solo quando passeremo il confine tra il male e il bene, tra il passato doloroso e il futuro luminoso. La speranza che non delude è già in corso, mentre i mali continuano a espandere la loro azione oppressiva, perché proprio in questa realtà terrena ci è data da vivere sulle orme di Gesù la sua carità, accettando la fatica delle nostre contraddizioni e le esperienze del buio, forti della speranza che guida la storia.
“La speranza non delude”
È comprensibile che l’intreccio di ombre e di luci, di mali e di speranze, possa a volte confondere gli animi. Il messaggio del Giubileo ci viene in aiuto: «Le tempeste non potranno mai avere la meglio, perché siamo ancorati alla speranza della grazia, capace di farci vivere in Cristo superando il peccato, la paura e la morte. Questa speranza, ben più grande delle soddisfazioni di ogni giorno e dei miglioramenti delle condizioni di vita, ci trasporta al di là delle prove e ci esorta a camminare senza perdere di vista la grandezza della meta alla quale siamo chiamati, il Cielo. (…) Possa la forza della speranza riempire il nostro presente, nell’attesa fiduciosa del ritorno del Signore Gesù Cristo, al quale va la lode e la gloria ora e per i secoli futuri» (Spes non confundit, 25).
La visione cristiana della storia, che qui papa Francesco riporta al nostro cuore, tiene insieme l’azione determinante del progetto divino, che la conduce, e l’intervento contraddittorio del peccato, che agisce con la paura e la morte. Questa visione della storia è capace di prendere in conto le tempeste e le avversità come condizioni ineluttabili del vivere terreno, senza tuttavia identificare l’avvento del Regno con la loro definitiva scomparsa dall’orizzonte mondano. Le situazioni di male e di dolore sono da affrontare e combattere con la grazia di Dio e l’agire coerente dell’uomo con le sue risorse, ma non sono da demonizzare come se fossero il nemico da vincere in una definitiva battaglia terrestre, né da assolutizzare come se all’uomo non restasse che una resa rassegnata e inerte. L’agire di Dio nella storia ci riconcilia piuttosto con la fatica della condizione terrena, segnata delle sue intime contraddizioni, insegnandoci a lottare, a sperare, ad amare, proprio nel contesto della contingenza e della precarietà dell’esistenza.
È nell’agire, infatti, che possiamo davvero amare e sperare. Tra i limiti e le avversità della storia, l’umanità è chiamata a guardare dentro e oltre il tempo. Dentro il tempo, perché la giustizia e la carità che vi si esprimono sono già in se stesse realizzazione dell’essere umano, pur con tutte le contraddizioni che invece lo deprimono. Oltre il tempo, perché la meta a cui l’essere umano è chiamato non è immanente e non dipende dall’utopica cessazione delle ostilità con la condizione terrena: la meta è Altra, è grande, è il Cielo. Non le provvisorie soddisfazioni della vita sono la meta, non le relative conquiste e i traguardi parziali sono l’obiettivo: la meta è l’Amore che non ha fine. E questa meta, questa speranza, non ci potrà essere sottratta da nessuna contraddizione terrena.
Proprio la bellezza sublime e divina di un Amore personale, meta del nostro esistere, ci permette di riconciliarci autenticamente con la fatica di lottare e impegnarci tra avversità terrene che potranno sempre essere affrontate ma mai definitivamente superate. Nello sforzo di migliorare le condizioni di vita, nell’impegno per i beni naturali, nella lotta contro le ingiustizie, le sopraffazioni e le guerre, nello zelo per la pace e l’armonia, noi sappiamo che piccoli e contingenti traguardi sono alla nostra portata, ma mai l’orizzonte terreno vedrà un termine a questo lottare. Eppure, proprio per questo risplende ancora più fulgida la bellezza dell’Amore, dono divino e vocazione umana, quale condizione e meta del nostro pellegrinaggio terreno. L’Amore è nostra vocazione perché non è uno strumento da usare per fini parziali e terreni, ma è bellezza in sé, è fine in se stesso, è gioia, è dono, è pienezza.
Ecco perché la speranza non delude. Perché essa guarda al Dio Amore come sua meta, in cui immergersi e in cui eternamente unirsi. Mentre lottiamo per le necessità di questo mondo e per il bene degli uomini e delle donne di questo tempo, noi sì speriamo pace, speriamo giustizia, speriamo dignità, ma sappiamo anche che questa speranza terrena non sarà mai definitivamente realizzata. Eppure, sperando e lottando, noi possiamo amare ed è questo amore che ci fa vedere il vero compimento della nostra speranza, è questo amore che semina un tesoro di salvezza e di carità che sarà custodito eternamente nel Cielo e che nessuno potrà mai rubarci.
La perdita di fiducia, una chiave di lettura dei segni dei tempi
Mosso da una speranza che non è vincolata dal mero raggiungimento di obiettivi mondani, il cristiano non per questo fugge dall’impegno terreno né se ne disinteressa. Al contrario, proprio perché la sua speranza resta salda, è chiamato a rivolgersi verso i problemi quotidiani con uno spirito motivato, solerte, positivo. La nostra speranza, che ha il suo compimento nel Cielo, dove l’Amore trinitario accoglierà la creazione, proprio per questo non ci distoglie dalla terra, ma anima il nostro impegno verso le realtà secolari.
Per una profezia della speranza, insieme alla consapevolezza di Cristo nostra meta, non possiamo disattendere una chiara lettura della realtà che ci circonda, a livello planetario e locale. La presenza cristiana nella storia, proprio perché responsabile della speranza, deve essere al tempo stesso attenta e sapiente.
Il mondo attuale sembra in effetti avvolto in una nebbia di disillusione e di paura. Le alte mete della pace, della giustizia, della vittoria sulla fame e sulle malattie, sono sfuggite alle presuntuose aspirazioni di un mero progresso tecnico-scientifico e culturale. E così si riaffacciano minacciose nubi che, illusoriamente, sembravano quasi dissolte.
Questa percezione è particolarmente diffusa nel mondo occidentale e democratico. La relativizzazione della propria influenza geopolitica fa apparire il rischio delle guerre come soggetto all’incontrollabile arbitrio di potenze che poco tempo fa apparivano marginali e che invece ora minacciano scenari di conflitti regionali o globali sempre più realistici. Una grande area di mondo, che per decenni ha osservato da lontano lotte e guerre che affliggevano altri popoli, ora non si sente più del tutto sicura di essere al riparo. In teoria, la riscoperta di questo sentimento di vulnerabilità, dovrebbe favorire un più immediato senso di empatia e solidarietà verso i popoli che da generazioni non conoscono la pace. Ma in realtà non sembra affatto che le nazioni occidentali siano diventate più sensibili. Piuttosto, crescono i sentimenti di chiusura nazionalistica e di ostilità verso gli immigrati, non di rado istigati dai linguaggi di una politica che preferisce legittimarsi facendo leva sugli istinti e sulle paure, anziché sulla forza di valutazioni argomentate e aperte al confronto democratico. Se alcuni decenni fa, in Europa, ogni abbattimento di frontiere politiche, economiche, culturali tra i popoli era salutato come un surplus di libertà e apriva a ulteriori speranze di pacifico scambio tra le nazioni, oggi si assiste al riemergere di un istinto di diffidenza e di chiusura, che ripiega i popoli dentro nazionalismi anacronistici. Di certo, le chiusure e le diffidenze, sono sintomi e cause di una diminuzione di speranza.
Anche la corrosione del benessere e il declino della centralità economica dell’Occidente a vantaggio di nuove potenze rapidamente emergenti contribuiscono a tinteggiare di scuro le prospettive dell’avvenire, soprattutto a carico dei giovani.
Non sono da meno i timori connessi al rapporto tra uomo e ambiente, tra civiltà e natura. Abbiamo vissuto a lungo in un atteggiamento, anche irriflesso, di superiorità rispetto al resto del creato, quasi che le promesse della scienza, della tecnologia e della medicina potessero mettere le civiltà al riparo dalle angosce dei secoli passati, quando uomini e popolazioni legavano la loro sopravvivenza alle benevole concessioni della natura e soccombevano senza difese davanti alle avversità climatiche o sanitarie. Ora stiamo riscoprendo, su più vasta scala, il sentimento della nostra piccolezza davanti alle sovrastanti forze del cosmo. In epoca di pandemie e, soprattutto, di mutamenti climatici, così rapidi ed evidenti da essere ben riconoscibili nell’arco di una sola generazione, capiamo che proprio quelle armi del progresso in cui confidavamo stanno infliggendo alla natura danni incalcolabili, il cui conto non può che ricadere sull’umanità. E se ponevamo speranza nel dominio sulla natura, ora riaffiora invece quell’atavico tremore davanti alle forze del cielo, della terra e del mare che ritenevamo retaggio di culture ancestrali.
Non è azzardato parlare di stravolgimenti della situazione sociopolitica, economica, ambientale. O quanto meno di sfide epocali che non lasciano tranquilli. Da qui, un senso di smarrimento e una perdita generalizzata di fiducia verso i falsi miti del progresso, del benessere, del dominio sulla natura. Credo si possa parlare della perdita di fiducia come segno che caratterizza il nostro tempo, almeno nel mondo occidentale.
La profezia della speranza
Comprensibilmente, anche noi cristiani rischiamo sempre che le asperità del tempo offuschino la certezza della nostra speranza e opprimano i sentimenti del nostro cuore, facendoci perdere spirito e motivazione nel nostro agire terreno. Di questo non ci possiamo meravigliare. Eppure, proprio il messaggio del Vangelo, l’annuncio della luce che viene ad abitare nelle tenebre, sono qui sempre pronti a ridestare il nostro animo e rimetterci in cammino con fiducia.
Condividiamo quindi tutti i timori, le sofferenze, le avversità del nostro ambiente e del mondo intero, insieme a tutta l’umanità di cui siamo parte. Prendiamo coscienza e chiamiamo per nome i mali che ci affliggono e le paure che gravano sopra di noi, senza cercare evasioni illusorie. E proprio nel dare un nome alle tribolazioni del tempo presente, assumiamoci il coraggio e la missione di ridare fiducia alla nostra epoca e alle generazioni che la vivo come il proprio tempo.
L’umanità ha bisogno di speranza, e come cristiani siamo chiamati ad essere profeti che riportano la fiducia nel cuore degli oppressi. Se anche noi, profeti per grazia battesimale, ci lasciamo rubare la speranza e ripieghiamo nella rassegnazione o nella chiusura egoistica, in tal modo ci rendiamo responsabili di privare il mondo di quella fonte di luce che il Signore vuole far passare attraverso la nostra testimonianza.
Paradossalmente, proprio la perdita di fiducia nel domani, che grava in buona parte sulle civiltà contemporanee, può diventare un segno dei tempi che sollecita una rinnovata e fiduciosa profezia della speranza, di cui noi battezzati dobbiamo per primi farci carico.
Il sentimento di crisi, di per sé, spinge i singoli più direttamente verso ripiegamenti individualistici. Una sorta di istintuale politica dello struzzo fa sì che davanti ai turbamenti esterni, finché essi toccano soprattutto gli “altri”, i singoli si rintanino nell’egoismo, nell’indifferenza e nel perseguimento di obiettivi piccoli e banali. I nazionalismi dei popoli, le chiusure identitarie e la cultura dell’indifferenza hanno una radice comune. Meglio accontentarsi di piccole mete individuali che puntare la speranza in alto e accettare il rischio di coinvolgersi in grandi obiettivi universali. Eppure – come riflette Enzo Bianchi – «la speranza non va vissuta nella solitudine, ma per essere salda, forte la speranza va vissuta sempre insieme: si spera insieme! Si spera con tutti quando la speranza ha un orizzonte collettivo che ci fa sentire tutti sotto un unico destino. Vorrei anche dire che si spera per tutti, perché la speranza è veramente un desiderio del cuore umano capace estendere uno sguardo che abbraccia tutti» (“Il dovere della speranza”, in La Repubblica, 2 settembre 2024).
Il nostro mondo ha bisogno di speranza, forte e condivisa. Ha bisogno di profeti che tornino a mostrare con la propria vita che vale la pena coinvolgersi, vale la pena aprire relazioni di solidarietà piuttosto che chiudere cancelli, vale la pena fare scelte di corresponsabilità sociale e ambientale anziché attendere che tutto cada giù, vale la pena ascoltare il grido degli ultimi che bussano alle nostre porte piuttosto che fingere soluzioni buone solo ad allontanarli dai nostri sguardi.
I segni dei tempi impongono a noi battezzati questa profezia. Il mondo ha bisogno, l’umanità ha bisogno. Non di soluzioni e di ricette, queste non sono già pronte. Ma ha bisogno di coinvolgimento, di impegno, di empatia, di carità. Di “prossimità, calore, ascolto”, come ci siamo detti durante l’assemblea diocesana.
Perché questa missione coinvolge in prima persona noi battezzati, noi comunità ecclesiali, noi Chiesa? Non perché noi abbiamo le risposte, ma perché abbiamo “la” risposta, quella che da sempre contempliamo davanti ai nostri occhi. La risposta sono le braccia aperte del Signore Gesù crocifisso e risorto. La risposta è lo Spirito che sgorga dal suo costato trafitto e che Egli effonde a Pentecoste sull’umanità nuova. La risposta è nel nuovo cielo e nella nuova terra che ci attendono, e che ci chiamano non ad un’attesa passiva e inoperosa, come quella del servo infingardo, ma ad una sollecitudine viva e premurosa, testimoniata dalle vergini sagge e dai servi fedeli del Vangelo. Questa missione di speranza, insita nella natura intima della Chiesa, ci è stata ricordata dal Sinodo da poco concluso: «La Chiesa esiste per testimoniare al mondo l’evento decisivo della storia: la risurrezione di Gesù. Il Risorto porta al mondo la pace e ci fa dono del Suo Spirito. Il Cristo vivente è la sorgente della vera libertà, il fondamento della speranza che non delude, la rivelazione del vero volto di Dio e del destino ultimo dell’uomo» (XVI Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, Documento finale, 26.10.2024, n. 14).
Proprio perché noi speriamo in Cristo, proprio perché a Natale noi celebriamo la luce che risplende su di noi, per questo noi portiamo dentro il nostro spirito e custodiamo nella fede della Chiesa l’energia divina che risveglia le coscienze, riscalda i cuori e li sprona ad alzarsi e muoversi verso la meta altissima della vita da risorti.
Verso dove possiamo incanalare questo impegno, verso dove ci spinge questa speranza? Molto concretamente: che cosa devo fare io qui e oggi? Come essere profeti di speranza in noi e attorno a noi?
Non siamo profeti di speranza quando ci atteggiamo a tuttologi che sanno discutere dei problemi del mondo e dettare soluzioni, velate di critica e di risentimento. Non siamo profeti di speranza solo se sappiamo affrontare i problemi globali su larga scala. Ma anche la capacità di leggere e affrontare su scala globale le più alte sfide dell’umanità richiede sempre alla base uomini e donne capaci di insufflare nella società uno spirito costruttivo di solidarietà e di impegno caritatevole. E questo spirito lo si soffia nel piccolo dei nostri ambienti, delle nostre famiglie, paesi, parrocchie, luoghi di lavoro, reti di relazioni.
È profeta di speranza chi sa cogliere e incoraggiare il positivo che c’è nel fratello, vicino o “straniero” che sia. Chi torna ogni giorno al suo lavoro faticando con coscienza, anche se sembra che niente cambi attorno. Chi sa stare nella propria famiglia con la forza dell’amore paziente, benevolo, che non cerca mormorazioni e litigiosità, ma tende al dono di sé come il fine più grande da conseguire. Chi si occupa della città con il garbo che si usa nel proprio salotto, perché tutti possano sentirsi coabitanti della stessa casa. Chi sa tendere una mano all’infermo, alla persona sola, all’anziano fragile, senza far pesare la propria presenza e regalando un sorriso di vicinanza. Chi abita la propria comunità ecclesiale senza protagonismi, ma con la dolcezza dell’essere accanto. Chi assume le sofferenze proprie e altrui e le eleva con umiltà e fiducia davanti al Cuore di Cristo, da cui ogni speranza proviene e verso cui ogni meta si immerge.
Comprendiamo così che la speranza di cui siamo profeti non offre agli uomini e alle donne del nostro tempo delle vie di fuga dalla crisi globale e collettiva, quasi dei rifugi privati offerti al singolo individuo. Una speranza egoistica non è speranza, è rinuncia, è sconfitta. Siamo profeti della speranza che crea comunità, che dà fiducia alle relazioni, che estende universalmente la carità di Cristo. È la speranza declinata dalle Beatitudini, come ho potuto ricordare durante la nostra recente assemblea diocesana: «Le Beatitudini delineano anche comunità con cui sperare: Gesù le pronuncia al plurale. Beati voi! Non: beato te! Così delinea un essere insieme alternativo e controcorrente, che non teme di essere minoritario, perché conosce la forza del sale, della luce, del lievito. Comunità di fede e di retta coscienza in cui e con cui sperare».
Carissimi/e, accettiamo con gratitudine e fiducia dal Signore il ministero di essere portatori di un po’ di luce di speranza in questo mondo che ne ha tanto bisogno. Come a volte si fa per la Quaresima, facciamo in modo di assumere anche in questo Avvento un impegno di bene, chiamiamolo pure un “fioretto”, come si diceva un tempo: l’impegno a portare un segno di speranza nei nostri ambienti. I modi possono essere tanti: innanzitutto, far scomparire certe nubi nere dal nostro modo di parlare e di comportarci: malumori, maldicenze, mormorazioni volte sempre a cogliere il negativo. Ma anche discernere in che modo essere presenza di pensiero e opere costruttivi, positivi, attorno a noi, con semplicità e non in modo artefatto. E poi proporsi gesti di cura e di responsabilità, perché sono questi i gesti di chi ha speranza e supera indifferenza e rassegnazioni: cura e responsabilità verso una relazione, un impegno familiare o civico, una disponibilità ecclesiale o sociale. Le attenzioni possono essere tante. Ma anche le piccole attenzioni possono diventare piccoli semi di speranza, gettati nel terreno della storia per portare frutti. Anche insperati.
Buon cammino di speranza, sorelle e fratelli miei!
Cassano all’Jonio, 1 Dicembre 2024
I Domenica di Avvento
+ Francesco